La «Prima Repubblica»
Tutte le democrazie del XX secolo si sono rette sulla competizione tra partiti, strumenti di partecipazione di massa alla vita civile e di selezione dei gruppi dirigenti centrali e periferici. L’Italia non fece eccezione. Tutti nati o rifondati tra la Resistenza e l’avvento della Repubblica, i partiti nazionali di prima generazione
monopolizzarono anche la politica locale, ad eccezione di formazioni regionali miranti a tutelare minoranze linguistiche e specificità locali. Il bipolarismo imperfetto che caratterizzò la «Prima Repubblica» – indotto anche da vincoli internazionali legati ai trattati di pace post bellici – impedì la normale alternanza al governo del polo di sinistra egemonizzato dal PCI. Il pernicioso sistema bloccato al centro ebbe ricadute benefiche sulla sfera locale là dove una normale alternanza migliorava la competizione politica. Vi fu però anche una ricaduta negativa là dove la sfera locale interferiva a livello nazionale in forma lobbistica o clientelare. Alla fine degli anni ’80 emersero due forze regionalistiche – Lega Lombarda e Liga Veneta – i n contrasto con i partiti nazionali, accusati di danneggiare gli interessi del territorio con logiche centralistiche, pratiche clientelari nel CentroSud e un’oppressiva fiscalità generale. L e prime erano parte integrante dei sistema politico; le seconde, nate con fini antisistemici, sbandieravano il separatismo.
La «Seconda Repubblica»
La democrazia bloccata implose nel triennio successivo a Tangentopoli. Molti partiti scomparvero. A destra emersero due partiti senza ascendenze dirette con il passato: Forza Italia e Lega Nord. Il primo prese piede grazie alla seduttività di Silvio Berlusconi, in gran parte tributario per le sue fortune dei governi precedenti,
della massoneria r della mafia; il secondo cavalcò l’onda protestataria post tangentopoli proponendosi come interprete e paladino delle rivendicazioni territoriali. A sinistra la sola continuità di personale politico fu quella del PDS, poi DS, discendente del PCI. Fu cercata una discontinuità ideale con il passato a favore di una generica opzione socialdemocratica. Altri soggetti politici di un certo rilievo furono Rifondazione Comunista e Italia dei Valori, focalizzata sui temi della legalità e della moralizzazione. Ebbe vita breve un interessante movimento non partitico, La Rete, nata come coordinamento di gruppi locali, non ideologici e trasversali, interpreti di esigenze di rinnovamento morale , civile, politico. Al centro si affermò una pletora instabile di formazioni cattoliche, più di nome che di fatto, e qui si è celata a fasi alterne la strapotenza economica della C ompagnia delle Opere. La sola formazione originale, la Margherita , di matrice morotea, avviò un processo di unificazione coi DS, culminato con la nascita del PD. Una serie di referendum promossi prima dal Partito Radicale e poi da Mario Segni determinò il cambiamento delle leggi elettorali per Camere, Consigli Regionali, Provinciali e Comunali. Da allora sindaci e presidenti regionali sono scelti direttamente dai cittadini (le Province, di recente trasformate in enti locali di secondo livello, non sono più elettive). Solo le elezioni europee mantennero la disciplina proporzionale vigente. L’intento iniziale di avviare un sistema bipartitico fallì. A confrontarsi furono due coalizioni di partiti subito raddoppiati di numero, spesso minuscoli e a d personam ma dotati di peso contrattuale. Ne derivò un precario bipolarismo con alleanze disorganiche cementate dall’ostilità per l’avversario più che da programmi chiari e netti. Lentamente la mediatizzazione della politica, accentuata da una deriva di tipo leaderistico, tolse efficacia alla partecipazione politica attiva. Il declino economico penalizzò i giovani e ne facilitò il distacco dalla politica.
Le ripercussioni locali
La qualità del personale politico locale crollò verticalmente. La lunga stagnazione e la successiva ancor più lunga crisi, associate ad una più forte pressione fiscale, e il parallelo arrivo al potere di homines novi, spesso ancor più impreparati e corrotti rispetto al non glorioso passato, peggiorarono le cose. Dal 2005 si affacciarono nella competizione politica liste civetta subordinate e costituite a d hoc per allargare, con il numero dei candidati, il bacino elettorale potenziale. L’elezione diretta di sindaci e presidenti finì per facilitare l’emergere di leader ben insediati nei poteri locali. Il saccheggio territoriale e la diffusa cementificazione, frutto di una visione paleocapitalistica della crescita, fecero il resto. Il degrado della politica locale fu persino più grave di quello nazionale. La crescita dell’astensionismo ne fu la prova. La disaffezione per la politica e per la partecipazione intaccarono prima la sfera nazionale per trasferirsi rapidamente in ambito locale. Da allora i vincitori saranno quelli capaci non di conquistare più consensi, ma di perderne meno.
La situazione odierna
L’acuta crisi finanziaria culminata nel 2011 ha posto fine all’epoca del bipolarismo. La pasticciata fase che ne è seguita ha cinque caratteristiche: un consociativismo sorto come stato di necessità per l’assenza di maggioranze chiare e stabili; l’emergere di forze populiste antisistema, fortemente protestatarie e
deliberatamente estranee a ogni dialettica politica, e perciò, più che sterili, dipendenti per le loro fortune elettorali dalla mediocrità e dall’incapacità degli avversari; la fine della coesione interna ai due maggiori partiti di seconda generazione, percorsi da forti lotte intestine; l’esaurirsi delle vecchie coalizioni; la mutazione della Lega Nord, che ha riesumato la sua originaria matrice qualunquista e protestataria, ma orientata a posizioni di destra estrema, ispirata ai Le Pen e incentrata su egoismi neonazionalistici anziché localistici.
I vecchi schieramenti politici e gli attori partitici sono a vario titolo in crisi. La fluidità è aggravata da comportamenti elettorali caratterizzati dal crescente astensionismo, dalla disaffezione per la politica, da un senso di disillusione, scetticismo e stanchezza, dalla volatilità delle scelte. Il tentativo, in sé lodevole, di
Renzi di imprimere una svolta riformatrice dopo decenni di immobilismo, non sembra poter produrre risultati sufficienti a suscitare una ripresa economica, intellettuale e morale nel paese. In ambito locale l’attuale i mpasse dei partiti ha ricadute più gravi. Ai problemi generali del paese si sommano quelli specifici dei territori. Le risorse sono sempre più scarse. Si parla molto di caste insediate nei poteri centrali: quelle insediate nei poteri locali sono persino più radicate, incluso il Centro e il Nord. Il clientelismo tradizionale, distribuito a pioggia, si alimenta al centro ma anche nelle periferie, concentrandosi su gruppi di interesse e potentati ristretti organicamente legati ai partiti. Benché divise, le destre locali tengono proprio perché riescono a cementarsi attorno a pratiche affaristiche o di potere.
Le possibilità dell’azione locale Potenzialmente, la crisi della politica centrale, con lo scollamento che determina tra centro e periferia, offre spazi d’azione a nuovi soggetti in sede locale. I Comitati Civici sono una di queste opportunità.
Chiamiamo movimenti civici quei nuclei sorti e cresciuti in modo autonomo dai partiti, radicati e non costruiti i n vitro o alimentati in un’incubatrice, operanti e aggreganti nella sfera reale e non solo in palcoscenici virtuali, capaci di produrre pratiche di trasformazione e di prefigurazione programmatica, costituiti da persone altamente credibili, libere da ideologie vecchie e nuove, portatrici di competenze e di passione civica. Si tratta di aggregazioni di persone di buona volontà, di provata indipendenza, disinteressate, unite da obiettivi e sentimenti comuni e da bussole valoriali rivolte a produrre trasformazioni e innovazioni ben definite. Tali comitati non possono ambire a sostituire i partiti, o almeno quelli ancora radicati tra la popolazione e dotati di un minimo di rappresentatività. Possono però sollecitare quei partiti a cambiare a 360° su alcuni punti essenziali: l’abbandono di una politica intesa come manovra, accordi di vertice e alleanze incentrate su compromessi e pratiche spartitorie; la totale libertà da lobbies , centri di potere e gruppi di interesse; il rispetto della legalità e dell’etica pubblica; una drastica selezione dei gruppi dirigenti, levando di mezzo i politici di professione, premiando le capacità a scapito dei meriti di carriera, facendo spazio a figure di provata onestà e competenza, al ricambio generazionale, all’apporto femminile; uno stile diverso nel rapportarsi all’opinione pubblica, nella definizione dei programmi e nella destinazione della risorse. Soprattutto nei centri di media dimensione questi comitati possono suscitare nuove energie dal basso, a partire dalla volontà e dal bisogno dei cittadini di un cambiamento profondo negli indirizzi di governo e nelle
pratiche di gestione della cosa pubblica, e costruire una via d’uscita da una situazione di aperto declino economico, sociale, culturale e morale, di degrado ambientale, di scarsa efficienza, di perdita di vocazioni produttive e di vivibilità nel territorio, di sprechi di risorse, di pratiche politiche lottizzatrici e spartitorie.
Perché questo insieme di elementi negativi possa essere corretto serve un processo che costruisca una convergenza paritetica su programmi di risanamento e rilancio realistico del territorio di cinque poli: i partiti, purché disponibili a cambiamenti netti, anche interni; i movimenti civici passati all’esame dell’esperienza e
dell’azione; il variegato mondo dell’associazionismo; le élites intellettuali e professionali; infine, ma non meno importanti, i cittadini rappresentativi dei quartieri, dei giovani, delle donne e gli esponenti delle tante comunità di stranieri, per lo più europei, che costituiscono un’opportunità e una risorsa anziché un costo e un pericolo per la vita della città.
L’impegno del Comitato Varese 2.0
A questa prospettiva si impegna ormai da un anno e mezzo il Comitato Civico Varese 2.0. Pensiamo a un percorso di convergenza incentrato sull’interlocuzione trasparente, limpida e disinteressata tra i cinque poli su indicati. Proponiamo questo cammino a tutti i soggetti disponibili a cambiare e a costruire un’alternativa
politica per il futuro di una città in palese decadimento e in grave degrado senza discontinuità da oltre tre interminabili decenni. Da questa interlocuzione riteniamo vadano escluse a priori le forze politiche e le figure che hanno retto la città di Varese per quasi 25 anni. L’alternativa è urgente ma non semplice da realizzare, e lo sarà solo se sapremo prepararla tutti insieme nel giusto modo. In caso contrario non potremo mettere a frutto l’opportunità di cambiamento offerta dalle elezioni comunali della tarda primavera 2016; nelle mani di chi ci ha portato nelle condizioni attuali, il degrado della città diverrà irreversibile. I vari soggetti che si propongono di invertire la rotta del declino della città con un mutamento sostanziale nei programmi, nei metodi di governo e nelle persone chiamate a reggere l’ente locale, hanno tutti davanti a sé otto grandi domande. Il futuro politico della città, e altresì quello del nostro Comitato, dipenderanno dalla possibilità di offrire delle risposte convergenti.
Quale è la condizione reale della città nell’autunno del 2015?
Quali sono le cause del suo degrado economico, produttivo, sociale e ambientale?
Quale è l’immagine della città che vogliamo realisticamente realizzare con le risorse effettivamente disponibili?
Quali sono le urgenze da affrontare?
Con quali risorse finanziarie affrontarle? Con quali competenze? Con quali indirizzi strategici?
Quali sono i punti programmatici essenziali su cui incentrare gli obiettivi di ripresa nei diversi ambiti: gli apparati amministrativi, le politiche di area vasta, i servizi, il bilancio, gli assetti urbanistici, la viabilità, la difesa e il risanamento paesaggistico e ambientale, la cultura, la qualità della vita, la valorizzazione del territorio, i giovani, le categorie più deboli, le attività produttive e commerciali e l’integrazione territoriale?
Quale è il modello, il profilo del futuro amministratore che dobbiamo proporre e poi selezionare attraverso il voto?
Come atteggiarsi verso gli ultimi atti dell’amministrazione in carica, e in particolare sul molto controverso e metodologicamente sbagliato masterplan di piazza Repubblica?

Solo da queste risposte potranno uscire una valorizzazione piena delle energie e delle risorse dei partiti disponibili al cambiamento, una presenza forte e formalmente paritaria dei movimenti civici, senza liste civetta tra i piedi a sostegno di Tizio o Caio, un programma di massima condiviso, un nucleo di persone già coese nella pratica e quindi in grado di lavorare insieme e di gestire insieme, ciascuno con i propri ruoli, la trasformazione della città, uno stile che non annunci un cambiamento dell’agire politico ma che già lo pratichi e lo sottoponga al vaglio dei cittadini, e solo infine, come sbocco del percorso, una coalizione chiara in grado di governare con vigore e cambiare le sorti della città con l’apporto critico e partecipato dei cittadini.